Passaggio generazionale: errori da non fare e buone pratiche

di Redazione Commenta

In un Paese nel quale l’85% delle imprese è a gestione familiare, per più di un quinto guidate da over 70, ma che è anche il più “vecchio” d’Europa, con una media d’età di circa 48 anni e 18-34enni in continua diminuzione, il passaggio generazionale sta diventando una priorità. Con l’aiuto dello Studio legale Borrelli, inserito da Forbes tra i migliori professional 2021 e 2022, scopriamo insieme come gestire questa transizione in modo da averne solo i benefici, evitando i più comuni sbagli e danni. 

Cosa significa ‘passaggio generazionale’?

Parliamo di un processo di trasferimento, che riguarda il capitale ma che interessa soprattutto la responsabilità di gestione di un’impresa. Quindi le competenze e le capacità, nel quadro di una missione, di una visione e di un’identità. Come ci spiega il fondatore dello Studio, l’avvocato Paolo Borrelli, un passaggio che – principalmente – può essere:

  • volontario, come frutto di una decisione;
  • dinamico, cioè stimolato da fattori legati a chi dovrebbe prendere le redini ma ai quali partecipa anche la “vecchia guardia” (es: avvio di una propria attività, acquisizioni, internazionalizzazione);
  • traumatico, che richiede un segnale di continuità e di solidità dell’azienda – soprattutto nei confronti delle Banche e degli investitori (es: per la compromissione grave e a lungo termine della salute o per il decesso improvviso del titolare);
  • contenzioso, quando non c’è accordo di vedute tra le vecchie e le nuove generazioni presenti in azienda.

Qualunque il caso, più della metà dei leader italiani vorrebbe che l’azienda restasse proprietà di famiglia ma solo uno su dieci ha predisposto un piano di passaggio generazionale e solo due su dieci stanno considerando di predisporne uno.

Quali gli errori da evitare?

Parliamo di errori di valutazione in buonafede, fondati principalmente sulle emozioni. A cominciare dal pensiero che essere un familiare renda anche capaci o vogliosi di portare avanti l’attività “com’è sempre stato fatto”. Infatti, mentre i fondatori si identificano nella società, nelle generazioni successive questo legame può essere meno intenso, a determinare meccanismi decisionali differenti e persino di maggior successo in termini di risultati. Il segreto? La “distanza emotiva” dall’azienda, che porta a fare meno errori del tipo:

  • fare confusione tra l’appartenenza alla famiglia e la competenza;
  • mischiare i ruoli di proprietà, governance e management;
  • prendere decisioni, selezione di terze parti compresa, in base ai valori affettivi e non agli elementi oggettivi;
  • considerare i figli come un proprio prolungamento, andando a limitare la loro creatività, vis imprenditoriale e autonomia.

Soprattutto, vedere la successione come un evento singolo (principalmente traumatico) e come obbligo verso il passato e non come un processo – di formazione, evoluzione e trasmissione nel tempo. Rivolto dunque al futuro e in grado di attraversare mutamenti, anche di visione, e imprevisti.

E quali le buone pratiche da seguire

Per cominciare, non fare da soli bensì affidare questo complesso processo a professionisti preparati e con una visione d’insieme. Come a un medico di famiglia, che conoscesse le tre generazioni, al posto dei tanti specialisti (in questo caso fiscali, commerciali o del lavoro) chiamati saltuariamente, in grado perciò di considerare tutte le diverse esigenze e di operare per il bene dei suoi membri e dell’azienda.

In seconda battuta, pensarci per tempo – possibilmente, prima che la generazione in carica raggiunga i 65 anni. Formando la generazione successiva o “reclutando” molto bene le figure terze. Predisponendo un piano per l’eventualità del passaggio traumatico, anche attraverso il frazionamento del patrimonio, e lasciandone libera una parte – in modo da poter liquidare eventuali soci non all’altezza o non interessati. 

Infine, banalmente, evitare gli errori illustrati sopra. Separando i tavoli familiari da quelli gestionali, assegnando i ruoli in base alle capacità e ai risultati, e coinvolgendo nei Consigli di Amministrazione anche membri esterni indipendenti.

L’85% delle imprese italiane dipende da questo.

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